Se non è sui social non è mai successo. Se il tuo video ha milioni di visualizzazioni, stai facendo un gran lavoro. Non importa come, non importa con chi, ma è fondamentale che nel video ci siano elementi forti come furti, aggressioni, persone che urlano, rabbia e indignazione. Se l’utente scorre via, l’algoritmo non ti premia. E la politica degli ultimi anni si è dovuta adattare.
Matteo Hallissey, il Presidente “enfant prodige” di +Europa e Radicali, lo sa benissimo. È il provocatore pannelliano della nuova era. Da circa due anni sui social sostiene una battaglia attiva contro le concessioni balneari automatiche e l’uso improprio dell’espressione “spiaggia privata”. Come afferma, le spiagge in Italia sono beni demaniali pubblici, e nessuno può rivendicare un “presunto possesso” semplicemente collocando cartelli come “spiaggia privata”.
Il nodo è giuridico prima ancora che politico. Le spiagge italiane, per legge, sono beni demaniali pubblici e dovrebbero essere gestite tramite concessioni assegnate con gare trasparenti. Lo impone la Direttiva Bolkestein dell’Unione Europea, che l’Italia avrebbe dovuto recepire già dal 2006. Eppure, da quasi vent’anni, il nostro Paese proroga automaticamente le concessioni, di fatto bloccando il mercato e garantendo posizioni di rendita a chi già occupa i litorali. Una stortura che nessun governo, di qualsiasi colore, ha mai davvero voluto correggere.
La battaglia di Hallissey è giusta nel merito, ma i metodi con cui viene portata avanti sollevano più di un dubbio. Sulla sua pagina Instagram, i video raggiungono in media circa 40 mila visualizzazioni, ma quando entrano in scena tassisti furiosi o balneari esasperati, le cifre esplodono: si parla di milioni di visualizzazioni. È qui che il messaggio cambia pelle e diventa format: indignazione, scontro, provocazione. Un mix perfetto per alimentare l’algoritmo.
L’ultimo successo è il video dell’aggressione ricevuta in una spiaggia di Lavinio da parte di un bagnino e alcuni soci. «Di fronte alla nostra azione i bagnini e alcuni soci dello stabilimento ci hanno aggredito e spinto, spaccando in due il nostro ombrellone che avevamo posizionato in modo pacifico sul lido. Non possiamo tollerare che i balneari continuino a spadroneggiare in questo modo senza che la politica si prenda la responsabilità di fare le gare e liberare finalmente gli stabilimenti da questa lobby», riferisce Hallissey.
Diciamolo chiaramente: quanti di noi posizionerebbero l’ombrellone su una spiaggia che appare chiaramente “privata”? Probabilmente nessuno. Sappiamo bene che qualcuno – un bagnino, un addetto, un gestore – verrebbe a dirci di spostarci. Non perché quella porzione di litorale sia davvero privata, ma perché così funziona da sempre. Il bagnino, spesso sottopagato e in molti casi assunto in nero, difende il posto di lavoro. È un esecutore, non un beneficiario del sistema. I veri profitti restano nelle mani dei concessionari, quelli che da anni incassano senza gare e senza concorrenza. Allora perché trasformare il bagnino in simbolo dell’abuso? Davvero è accettabile colpire l’anello più debole della catena pur di fare clamore?
Certo, le aggressioni documentate nei video sono inaccettabili, e la violenza non può mai essere giustificata. Ma c’è una forma più sottile di sopraffazione: quella che si esercita scegliendo scientemente un bersaglio debole, per innescare lo scontro e garantirsi visibilità. In una stagione in cui tutto passa dai social, anche la giustizia rischia di trasformarsi in show. E quando il confine tra attivismo e provocazione si fa sottile, serve chiedersi: stiamo cambiando davvero il sistema, o solo il modo in cui lo spettacolarizziamo?
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