Il colpo è arrivato alle spalle, improvviso e secco. Franco Lollobrigida, 35 anni, è caduto nei giardini pubblici di Rocca di Papa, accanto al capolinea Cotral, vicino a un carrettino della raccolta rifiuti. Era l’uomo condannato – ma non in via definitiva – per l’omicidio preterintenzionale di Giuliano Palozzi, il giovane morto nel 2019 dopo essere stato picchiato in strada per un debito di 25 euro. A sparare, secondo la ricostruzione dei carabinieri, è stato il padre della vittima, Guglielmo Palozzi, operaio nella raccolta differenziata.
L’omicidio di Rocca di Papa ha avuto l’effetto di un’esplosione emotiva non solo nella cittadina ai Castelli Romani, ma anche online, dove in poche ore si è riversata una marea di commenti. Il gesto, freddo, premeditato, consumato in pieno giorno davanti a decine di testimoni, non ha generato indignazione. Al contrario, in migliaia hanno difeso l’autore dello sparo. Lo hanno compreso, giustificato, in qualche caso perfino celebrato.
«Ha fatto quello che lo Stato non ha fatto», è una delle frasi più ricorrenti tra i commenti. «Se l’assassino di tuo figlio se ne sta al bar a bere tranquillo e tu ogni giorno lo incontri per strada, cosa faresti?» scrivono in tanti. Alcuni hanno parlato di “giustizia fatta”, altri hanno chiesto “una medaglia per questo padre”. E quasi nessuno ha espresso solidarietà alla vittima. Anzi, in molti sono andati a commentare direttamente sul profilo social di Lollobrigida, lasciando messaggi sprezzanti, talvolta feroci. A dimostrazione di un’esasperazione latente, silenziosa, che covava da tempo e che è esplosa con violenza non appena la notizia dell’omicidio a Rocca di Papa ha iniziato a circolare.
Per il popolo del web, in questo caso, c’è un solo colpevole: la giustizia italiana.
E in fondo la domanda che attraversa Rocca di Papa dopo l’omicidio – e che rimbalza in rete – è sempre la stessa: perché Lollobrigida era libero? Dopo una condanna in Appello a 10 anni, emessa appena un mese fa, per l’omicidio preterintenzionale di Giuliano Palozzi, attendeva a piede libero il terzo grado di giudizio. Una libertà che pesava, che divideva e che oggi, dopo il colpo di pistola, viene indicata come causa prima dell’omicidio.
Il gesto di Guglielmo Palozzi è stato rapido. Ha avvicinato Lollobrigida da dietro e ha sparato. Poi ha camminato via. I carabinieri lo hanno intercettato poco dopo in via Roma. Interrogato, ha ammesso di aver pianificato tutto. Ha detto che non ce la faceva più. Sul luogo del delitto è arrivato anche il sindaco di Rocca di Papa, visibilmente provato, che ha chiesto «rispetto per il dolore».
Giuliano Palozzi era morto cinque anni fa dopo essere stato colpito con violenza da Lollobrigida, che secondo la ricostruzione gli aveva venduto una sostanza spacciandola per droga. La lite degenerò sotto casa, in via Frascati. Il giovane finì in coma e morì dopo settimane di agonia. In primo grado l’imputato fu assolto. Solo lo scorso mese la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza, condannandolo a dieci anni. Ma Lollobrigida non era in carcere. E quella libertà sembra esser diventata un peso insopportabile per un padre distrutto.
Chi conosce Guglielmo Palozzi lo descrive come un uomo chiuso, segnato, affaticato. Da anni lavorava in silenzio, portandosi addosso il lutto di un figlio e, con esso, il senso di ingiustizia. Un malessere che in paese non era mai passato. Anche per questo, quando ieri è stato fermato con la pistola ancora addosso, nessuno è rimasto sorpreso.
Il caso ha riportato alla luce anche un altro episodio inquietante: nel maggio 2023, uno dei primi soccorritori di Giuliano e testimone dell’aggressione, fu ferito da un colpo d’arma da fuoco nei magazzini di Cinecittà World. Gli investigatori lo collegarono subito alla vecchia vicenda. Una vicenda mai chiusa, mai elaborata, che aveva lasciato segni profondi in più persone, in più luoghi.
Ora Guglielmo Palozzi è accusato di omicidio volontario. La pistola è stata recuperata. Ma sul banco degli imputati, almeno nella percezione collettiva, non c’è lui. C’è la giustizia, ci sono le leggi che permettono a chi uccide di camminare liberamente, c’è uno Stato che – è la sensazione diffusa – non protegge abbastanza chi subisce.
E se i commenti sui social non rappresentano l’intera società, rappresentano però una frattura: tra legge e giustizia, tra processo e verità, tra diritto e dolore. Frasi come «è solo colpa dello Stato», «onore a questo padre», «la vera sentenza l’ha scritta lui» raccontano molto più di un semplice sfogo. Raccontano un bisogno profondo, quasi arcaico, di ordine, di riscatto, di punizione. E raccontano anche il pericolo di una deriva: quella in cui la giustizia viene sostituita dal furore, e la legge dall’emozione, se lo Stato non riesce a garantire giustizia certa e sicurezza personale.
L’omicidio di Rocca di Papa non è solo un fatto di cronaca. È una crepa. Una linea sottile e inquietante tra il dolore e la vendetta, tra ciò che la legge dice e ciò che la gente sente. Ed è una storia che non si chiude con un arresto, ma che lascia aperta una domanda difficile da affrontare: quando la giustizia arriva troppo tardi, chi la raccoglie?
O, come canta De Gregori in una delle sue ballate più amare, «cercavi giustizia ma incontrasti la legge». E in quel confine incerto, tra legge e giustizia, tra Stato e solitudine, si consumano non solo i fatti, ma le ferite di un Paese intero.